Da tempi immemori il territorio dell’alta marca trevigiana, nell’arco pedemontano che va dal Piave alle sorgenti del Livenza, particolarmente ai piedi del Cansiglio, ha sostenuto le popolazioni locali fornendo cibo, materie prime, legna e molto altro, in una parola: “ricchezza”.
È vero, non era “ricchezza” a buon mercato: il prezzo da pagare era un duro lavoro e grandi fatiche il cui risultato era spesso una misera manciata di cibo e beni appena sufficienti per una magra sopravvivenza, perseguendo un sempre precario equilibrio fra esigenze umane e le pretese di una terra spesso avara e solo talvolta generosa. Sarebbe comunque riduttivo pensare che la semplicità delle lavorazioni contadine o boschive trascendesse da una visione più ampia: “superiore”. Anche a queste latitudini l’uomo ha sempre cercato di coniugare il lavoro con l’esigenza di ordine, armonia e bellezza. Una costante azione di modellamento degli spazi naturali per strapparli al selvatico e piegarli ad un ordine appagante non solo sul piano utilitaristico ma anche su quello estetico.
Una diuturna lotta ha stimolato l’ingegno e l’intraprendenza dell’uomo ad elaborare processi produttivi sempre più complessi, muovendolo ad elaborare modelli di comportamento sempre rinnovati, per tentare di ridurre la fatica spingendosi fino ad inventare nuovi strumenti di lavoro. In sintesi a sviluppare una Cultura che si fondava sull’uso intelligente delle risorse. “Suol l’utile a l’industria esser conforme” recita un detto medievale. E i nostri predecessori non si sottrassero a questa regola È stato un processo altalenante, lento ma inarrestabile che raggiunse un ragionevole equilibrio nell’interazione fra uomo e ambiente. A volte le soluzioni adottate rasentavano la genialità: – basti pensare ad esempio alla panca per costruire gli zoccoli (banca da thocole) un attrezzo geniale che coniuga semplicità e funzionalità -.
Proprio nel basso medioevo troviamo le radici culturali della nostra gente. La Serenissima Repubblica di Venezia, ha fatto del bosco del Cansiglio il proprio “bosco da remi”. La sapiente gestione delle foresta ha lasciato traccia non solo nelle confinazioni recentemente ritrovate e catalogate, ma soprattutto nella memoria storica delle persone, memoria che stratificandosi nel tempo ha plasmato nuovi modelli di comportamento, alcuni dei quali si riescono ancora a leggere nelle metodologie colturali del bosco. Duole constatare che, al di fuori di quest’ambito, l’interazione osmotica che da millenni sottendeva armonicamente al rapporto uomo-terra è oggi quasi totalmente dimenticata, per non dire cancellata. Ma la terra continua ad essere lì, generosamente mente aperta ad accogliere le nostre istanze e generosamente pronta a continuare a nutrirci e non solo di cibo; sempre che vogliamo adattarci a rivolgerglisi umilmente per riscoprirla e per fruirne in modi nuovi ed innovativi.
L’utopia che perseguiamo nel Bosco dell’Arte è quella di guidare le nuove generazioni ad una sorta di agnizióne, un riconoscimento improvviso, che stimoli la riscoperta di un vissuto profondo, assimilato attraverso il vivere il territorio e il contatto con i superstiti delle antiche tradizioni, a ritrovare le tracce di quelle spinte creative di cui sopra.
Si pone quindi a noi, moderni residenti di questi territori, il problema di codificare e definire una nuova relazione con l’ambiente naturale che risponda adeguatamente alle mutate esigenze del nostro tempo.
È indispensabile, in primis sul piano etico e morale, porre rimedio all’arrogante presunzione di poter impunemente abbandonare la terra senza pensare di dover pagare l’alto prezzo che ne deriva.
Non possiamo fingere a lungo di non vedere il degrado idrogeologico che inesorabilmente erode e sgretola la terra che calpestiamo, franando a valle strade e abitazioni, costringendoci a faraonici lavori di contenimento e ripristino di cui i nostri vecchi non immaginavano neppure la necessità, sempre pronti com’erano alla cura quotidiana e minuta della terra, tracciando gavìn (canali di scolo), contenendo ruscelli, piantumando declivi.
Emerge dunque la necessità di definire chiaramente fino a che punto la conservazione delle tradizioni possa o debba prevalere sulle supposte necessità contemporanee.
Finché si continuerà a credere che le iterazioni sopra descritte siano solo un passato da tutelare, riscoprire e conservare, il nostro lavoro avrà vita breve.
Il termine tradizione (dal lat. traditio-onis, “consegna, trasmissione”), nell’accezione che vogliamo intendere, esprime il suo significato principale in “trasmissione nel tempo di modelli di comportamento e norme di vita”. Ciò che si deve custodire e trasmettere sono i modelli e le norme, in sostanza la lezione del passato, non tanto le azioni compiute.
In realtà quelle che solitamente definiamo “tradizioni”, lungi dall’essere meccanicamente trasmesse da una generazione all’altra, appaiono spesso come il frutto di una selezione, ex post, del passato e sono oggetto di continue trasformazioni se non addirittura il prodotto di vere e proprie ‘invenzioni’, come sostenuto da E. Hobsbawm e T. Ranger (“L’invenzione della tradizione” Einaudi).
Illuminante per la comprensione del nodo del problema è quanto disse Gustav Mahler: “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Resta a questo punto aperta la questione più complessa, quella di individuare quale sia il fuoco e quali siano la ceneri. Dare risposta a questo quesito è l’elemento propulsivo da cui scaturisce l’idea del Parco Didattico Tematico “Il Bosco dell’Arte”.
Prima di essere un luogo fisico, il Parco è una ”imago” nel suo significato latino (immagine, spirito, concetto, visione, sogno, apparenza, ricordo, riflesso, paragone, allegoria, allucinazione); un’astrazione insomma, intorno cui elaborare e costruire ipotesi e linee guida per ridisegnare l’approccio dell’Uomo con la Natura, la Tradizione, l’Arte.